BIOGRAFIA

Brano tratto dal libro "SICILIOMI - Annuario di varie scritture" a cura di Marcella Argento, Prova d'autore -Catania 2003


Colloquio tra Germano Lalterca e l’Avvocato Giuseppe Cardillo


Giuseppe Cardillo è presidente della più nota delle associazioni siciliane fuor di Sicilia, quella di Firenze.
Riveste la più alta carica morale dell 'Associazione Volontari Italiani del Sangue ed è un avvocato fiorentino diviso tra la professione, l 'archeologia e la filantropia. Si pensa ancora come un picciotto, che tuttavia ha l 'onere di rappresentare la patria siciliana nel foro fiorentino e nel movimento italiano del volontariato.
Ed è tra gli animatori culturali più conosciuti della capitale della Toscana.

Quale tra questi è il personaggio più vero?

Per capire cosa c'è dietro ogni uomo, occorre fare sempre riferimento alla cultura della sua terra, alle sue origini, alla sua famiglia. Questo vale ancora di piu’ se si tratta dei siciliani. Sulla Sicilia dei greci, degli arabi e dei normanni, ne sappiamo abbastanza, non tanto però sulle località ritenute minori, come puo’ essere Lentini.

La città è tuttavia tra le principali dell'oriente siciliano, quello che guarda la Grecia. E' qui che sono nato nel 1945 in una famiglia dove padre e madre si identificano nelle radici di Sicilia.

A 23 anni, con una tesi sulle vicende storico-giuridiche di Malta, ho preso a Catania la laurea in giurisprudenza, ed un mestiere buono per la vita.

E’ il terreno di un giovane che come tanti ha coltivato gli interessi innati con la passione per la cultura ed insieme per la giustizia. Anelli di congiunzione necessaria per comprendere i tempi passati e quello futuro. Non mi sento perciò un personaggio, perché sono solo una persona vera, anzi un siciliano comune..


Cominciamo dal picciotto Giuseppe Cardillo, e da Lentini.

Il richiamo a Lentini mi emoziona sempre. Ho lasciato il paese nella gioventù più bella, e non riesco a distinguere la città di oggi dal romanzo della sua storia.

Quanti sanno che fu Gorgia da Leontini ad indurre l’alleata Atene agli interventi di Alcibiade e Nicia contro Siracusa e quindi alla disfatta nella guerra del Peloponneso? Mi chiedo quale sarebbe stata la storia del Mediterraneo se Atene avesse vinto quel conflitto, se cioè il primo dei sofisti non avesse così ben parlato nell’Aeropago.

Leontini venne visitata da Polibio, che la descrisse con tale puntiglio che agli archeologi bastò seguire lo storico di Megalopoli nelle ricerche della polis sepolta dagli agrumeti.

Salvatore Ciancio individuò tra i primi il luogo della porta nord, sotto la quale venne assassinato l’ultimo tiranno di Siracusa, ancor prima che le vestigia di quel monumento riemergessero nel 1964 per lo scavo delle fondamenta di una palazzina.

Ricordo le mie insistenze di giovanissimo cronista con Luigi Bernabò Brea, sovrintendente alle antichità, per il blocco di quella costruzione. Il fermo venne disposto solo in via provvisoria e ricordo bene le minacce che ricevetti dai contro interessati, come la triste ripresa del cantiere in un luogo che avrebbe dovuto essere sacro.

Decisi che avrei lasciato la Sicilia, una viltà che non mi lascia.

Mi duole perciò non aver conosciuto Salvatore Ciancio, artefice della riscoperta dell’antica Leontini. L’ho fatto solo venticinque anni dopo, quando era ormai troppo tardi.


Parliamo allora di Salvatore Ciancio.

Insegnava nel liceo di Lentini, dove senza pudore i docenti di greco e latino talvolta sgombravano le aule dai banchi per recitare Omero, Plauto e Orazio, con l'applauso degli studenti spettatori. Questa era la nostra scuola.

Ciancio aveva pubblicato in quei tempi "Leontinoi-Lentini", il principale testo sistematico sull'individuazione del sito di quella polis siceliota. Nei primi anni '80 pubblicò la sua tesi sull'attribuzione a Pitagora di Leontini dei due bronzi ritrovati nel mare di Riace.

Al contrario di quella che fa provenire il gruppo statuario ad un trasporto di opere d'arte compiuto in età romana dalla Grecia verso l'Italia, attribuisce le statue ad un carico di doni che Leontini inviò sul finire del quinto secolo ad Atene, a suggello dell'alleanza antisiracusana: "e' probabile che intorno al 427 a.c. una nave oneraria leontina facesse vela verso Atene.

Portava dei doni. Il dono più prezioso - ha sostenuto Ciancio - era il gruppo dei Tirannicidi": Armodio e Aristogitone che nel 514 a.c. avrebbero ucciso ad Atene il tiranno Ipparco ed a loro volta vennero uccisi da Ippia. Furono perciò i primi tra i mortali ad essere venerati e ad avere le statue nei luoghi sacri di Atene.

Dunque il dono più prezioso di Leontini per la città alleata era lo stesso simbolo della libertà democratica, così come Leontini voleva ribellarsi all'oppressione dei dori di Siracusa.

L'opera, insisteva Ciancio, era stata creata da quel Pitagora di Leontini i cui bronzi erano ammirati a Delfi, Olimpia e Taranto, così reali nelle espressioni da procurare ogni sentimento agli ammiratori, come Plinio riferiva.

Non era il primo trasporto di statue di Pitagora, quello che da Leontini andava ad oriente, come si apprende da Pausania circa una statua, la cui base è stata in effetti ritrovata in Olimpia, dedicata ad Astilo che aveva vinto per la terza volta la doppia corsa olimpica.

La nave che trasportava i bronzi che i leontini avevano tolto al loro ginnasio non raggiunse mai il porto di Atene. Dopo una notte ed un giorno di viaggio dal porto di Leontinoi affondò forse per improvvisa tempesta o per l'aggressione di navi di Siracusa o Messina, che in quel tempo bloccavano per terra e per mare l'orgogliosa polis calcidese di Sicilia.

In quel tempo ero buon amico a Firenze di Ugo Cappelletti, presidente dell'associazione dei cronisti italiani e prestigioso giornalista de La Nazione. Era ancor più noto come il cronista delle vicende personali dei pompeiani pietrificati nella città campana distrutta nell'anno 79.

Cappelletti e lo staff della Nazione si entusiasmarono all'ipotesi di Salvatore Ciancio e mi chiesero di contattarlo. Con emozione ricercai Ciancio in Sicilia: era il simbolo di un'archeologia gentile, quella più pura dei sognatori.

Ritrovai ad Avola la casa di Ciancio, dove nel frattempo si era trasferito, e partecipai con emozione la disponibilità del gruppo editoriale Monti a far propria l'origine leontina e siceliota dei due bronzi da poco restaurati a Firenze.

La moglie mi riferì tra le lacrime che Salvatore Ciancio era scomparso solo tre giorni prima, nell'amarezza di non aver potuto far accettare quella tesi così poco creduta perché proveniente dalla flebile voce di un archeologo di provincia.

La Nazione lasciò quindi cadere quello scoop, e Ciancio tornò nell'oblio. La storia dell'arte un tempo gli darà ragione ed onore.

Questo è avvenuto nei primi anni '80. Da tempo non ero più a Lentini, che avevo lasciato dopo il mio tirocinio legale, in una pretura in cui dominava la figura di Salvatore Lazzara, e nasceva quella di Giovanni Falcone.

Ma per quanto diverso, Lazzara non è meno notevole dell'altro. Posso anzi dire che in quel luogo di Sicilia, ebbero inizio due percorsi della giustizia penale italiana.


Lazzara è un penalista, Falcone un giudice. Non parrebbe un accostamento proponibile in Sicilia.

Rivolgo il pensiero al mio maestro nelle difficoltà del lavoro ed in quelle quotidiane. Non molti oggi ricordano Lazzara come il difensore di Salvatore Gallo, che per antonomasia rimane nella memoria giudiziaria come l'ergastolano innocente.

Il caso balzò nelle cronache italiane nei primi anni '60, quando per effetto delle ricerche svolte successivamente alla condanna definitiva di Salvatore Gallo, imputato dell'omicidio del fratello, Salvatore Lazzara scoprì che il morto non era morto, perché circolava in buona salute nelle campagne di Noto, dopo aver fatto credere di essere rimasto ucciso a seguito di un violento alterco con il fratello.

Liberato dall'ergastolo di Ventotene, Salvatore Gallo incarnò emblematicamente la necessità un aggiornamento delle norme processuali penali, che iniziò con l'introduzione di nuove regole per la revisione delle condanne definitive.

Il caso Gallo divenne altresì l'occasione per discutere l'esigenza di nuove regole processuali, e quindi per l'introduzione nell'ordinamento italiano del processo accusatorio in luogo di quello inquisitorio, un processo dove l'accusa e la difesa avessero pari dignità davanti al giudice.

Gli insegnamenti che ho ricevuto da Salvatore Lazzara fanno dunque parte delle memorie che mi sono più care, ed insieme ai non pochi episodi di quel breve ma felice periodo costituiscono certamente un punto di forza della mia persona, così come avviene a chiunque trae dalle esperienze giovanili il migliore consiglio.

A Lentini tuttavia in quel tempo iniziò il lavoro di chi sarebbe divenuto un gigantesco emblema della magistratura italiana: Giovanni Falcone era allora pretore di Lentini.

Il giovane magistrato si confrontava allora con le ordinarie questioni rurali, con le sottrazioni più efferate di pollame dalle masserie, e soprattutto con le questioni di corna. Ricordano ancora un processo dove un marito aveva denunciato il tradimento della moglie, che andava ad accompagnarsi di pomeriggio con l’amante sotto un grande albero di gelso.

Avvertito della circostanza, l'uomo si munì di doppietta e venne ad appostarsi tra le foglie di quella pianta, poco prima del puntuale arrivo della coppia, che si distese proprio sotto quelle fronde.

Ascoltato il cornuto, Falcone stupì i presenti con fine sarcasmo, che in tempi in cui l'adulterio ed il delitto d'onore avevano un posto di riguardo nel codice penale domandò al quel testimone e parte offesa, con la più sottile delle ironie, come mai non avesse sparato.

La mia Lentini era anche questa, un paese dove amicizia, cultura e politica erano la stessa cosa.

Erano gli anni di un sindaco venuto da Firenze, il proconsole rosso Otello Marilli, ed era il tempo in cui si formavano nella stessa Lentini Tano Pisano e Luciano Schifano, artisti oggi di gran fama internazionale, e c'era la scuola di pensiero di Sebastiano Addamo.

Tra i primi due, la pittura di Pisano è nota in tutta Europa, e Luciano Schifano è l'autore delle nuove vetrate di Santa Croce, nello stesso ambiente dove vediamo le opere di Giotto e Donatello.


Se dunque il richiamo alla Sicilia conduce ad un misto di fierezza e malinconia, cosa le indica l 'esperienza di avvocato?

In un'occasione la stampa fiorentina bontà sua - mi ha citato come uno dei più noti penalisti in una città dove i mostri sono celebri come gli artisti, e così è stato per i processi dove ho difeso Renato Vano, che trucidò la moglie e visse accanto al cadavere per lungo tempo, per Franco Palamara assolto dopo anni di arresti e quindi risarcito in gran misura dallo Stato, come per il processo all'ultimo esponente di Prima Linea, dove sono stato patrono dei familiari di Fausto Dionisi, il coraggioso poliziotto trucidato a Firenze nel 1978.

Ancor più difficile il mio intervento nel caso di (Omissis), la piccola contesa fra il padre tunisino e quella madre italiana che tentò di ucciderla al solo scopo di non farla avere al padre, in un conflitto dove sono intervenute le autorità tunisine, che sta commovendo la pubblica opinione e che registra ogni mese nuovi colpi di scena.

E' nel diritto penale internazionale che ho avuto tuttavia le più belle giornate. Ricordo la partecipazione con Giuliano Vassalli alle giornate di Varna, in Bulgaria, dove ho presentato nell'Associazione Internazionale di Diritto Penale, organismo delle Nazioni Unite, la mia relazione sulla pericolosità criminale.

Nello stesso giorno la delegazione italiana e quella francese attaccarono i bulgari ed i russi per l’uso dei manicomi come strumento di repressione politica. Quella sera il Ministro della Giustizia di Bulgaria, una bella donna, mi invitò a ballare confessandomi la sua approvazione verso la delegazione italiana.

Più vicino è stato il congresso mondiale dei penalisti a Rio de Janeiro, dove la delegazione italiana venne rapinata da uomini in divisa in un lussuoso albergo di Copacabana, procurando sgomento nel governo brasiliano. In quel consesso presentai con l’austriaco Trifferer ed i tedeschi Eser e Schomburg una nostra mozione per un diritto penale sostanziale internazionale, cioè di regole comuni sulle violazioni fondamentali delle regole della convivenza.

La proposta venne approvata nella stessa giornata in cui passò quella sul Tribunale Penale Internazionale sui crimini contro l’umanità in Ruanda e Jugoslavia, che oggi siede all'Aia dopo gli accordi di Roma.


La stampa lo sta segnalando come l 'avvocato-archeologo di Myndos, una città sepolta in Asia Minore. Com 'è finito laggiù?

Scrivevo di archeologia in Sicilia a ventuno anni. Corredavo gli articoli con gli scatti dell'amico Ciccio Lanteri e mi pagavano con quindicimila lire per ogni articolo, che in genere superava le quattro colonne.

Ricordo i servizi sul Ceramicos, l'area sacra di Leontini, e le interviste agli archeologi sul fronte degli scavi. La passione non è calata con gli anni, ed è riesplosa in Turchia, dopo una visita del museo dell'archeologia subacquea di Bodrum.

Mi diressi verso Gumunsluk nella metà degli anni '90, incuriosito dal nome di una delle porte di Alicarnasso, quella di Myndos, davanti alla quale Alessandro Magno rischiò una disfatta prima di conquistare la città.

A Gumunsluk, l'antica Myndos, quasi nessuno presta attenzione alle emergenze archeologiche del luogo, e fu così che ho iniziato una solitaria ricerca che dopo due anni di sopralluoghi mi ha consentito la stesura di una topografia e l'ipotesi sull'ubicazione dei principali edifici del sito.

Di Myndos non vi sono quasi tracce in letteratura. Ne hanno riferito più in particolare gli storici romani, quando si seppe che Bruto e Cassio prepararono lo scontro finale con Ottaviano ed Antonio ammassando centinaia di navi da guerra nel porto naturale che a Myndos formano il promontorio Kocadag ed un isolotto all'ingresso di una baia posta dirimpetto all'isola greca di Kalimnos.

Mausolo di Alicarnasso intuì le potenzialità militari del luogo, già fortificato da una ciclopica muraglia in età micenea, e lo chiuse con belle mura intervallate da torri: un circuito attorno a quell'approdo lungo oltre quattro chilometri.

Sulla sommità del monte che sovrasta la città le mura andavano a chiudersi con un bastione inaccessibile ancora oggi, che ho rinvenuto dopo lunga e pericolosa scalata. Dall'alto di quel forte la vista dell'antica Myndos e delle poche case di Gumunsluk, più in basso di trecento metri, ripaga l'appassionato archeologo e il più esigente dei paesaggisti.

La discesa dalla cima fortificata di Myndos non è meno difficile della salita, e si può fare solo percorrendo la cresta delle mura della città, che la rendevano una formidabile base navale.

Myndos venne certamente abbandonata in età ellenistica, ma ciò che lascia intuire il terreno mi ha consentito l'individuazione di due templi, di una via colonnata verso il mare, e dei resti di un magnifico edificio residenziale che si protendeva sulla linea della costa con una sala corredata da mosaici e circondata da colonne di marmo.

Questo edificio venne sicuramente abitato dai due cesaricidi nel loro anno di permanenza a Myndos, dove è evidente la vocazione militare di quel porto, reso inaccessibile da una torre che si ergeva con potenza da un fondale marino di otto metri per reggere le catene di chiusura del porto. Il mare non è riuscito a svellere quelle opere, che sfidano ancora oggi ogni tempesta.

L'esplorazione dei fondali marini di Myndos accentua l'interesse per questa straordinaria e dimenticata città della Caria. Ho misurato decine di metri di imponenti muraglie sommerse e scorto anfore a non finire, in questa città dove i cui abitanti venivano ricordati in antico per il vezzo di bere il vino mischiato all'acqua del loro mare.

Le ricerche a Myndos hanno suscitato la curiosità della gente di Gumunsluk, che prima mi ha dato del matto e poi si è unita al mio interesse. Qualche pastore ha lasciato infine le vacche per aiutarmi a spazzare qualche metro quadro di mosaico, che poi ho ricoperto per proteggerlo dal pascolo degli animali.

Temo il mio ritorno a Myndos, e la tentazione di restarvi.


Tra i fiorentini è tuttavia noto come il coraggioso presidente dei volontari del sangue, che fondò nel 1990 il centro di raccolta del plasma autogestito, che oggi soddisfa in buona parte i fabbisogni di uno dei più grandi centri clinici d 'Italia.

A Firenze ero il pupillo di Bruno Bertoletti, uno straordinario protagonista della guerra partigiana che aveva seguito nella militanza socialista il padre Gino, mai dimenticato segretario della Camera del Lavoro fiorentina degli anni '20, lo stesso periodo in cui nella città cadevano Spartaco Lavagnini e Gustavo Console.

Già nel '43 Bertoletti salì in Appennino per comandare una squadra partigiana cui gli alleati riservarono un posto sulla linea gotica. Tornato in città poco prima della liberazione, organizzò le squadre clandestine di Firenze. In quei giorni Bruno e la sorella Mara presero in consegna il comandante Sandro Pertini, cui anzi salvarono la vita in una circostanza.

Il Presidente della Repubblica non dimenticò mai il giovane Bertoletti, che tratteneva a pranzo al Quirinale, e che andava a visitare a Firenze in ogni circostanza.

Da Bruno Bertoletti, da Giovanni Chellini, il prete compagno di don Milani, e da Amedeo Bellosi, il più tenace sindacalista delle Officine Galileo, ho avuto lezioni di filantropia che mi sono care.

Con loro, e con Orlando Moschini Fristche, abbiamo sottoscritto il nostro testamento di donatori nel gennaio del '75 per fondare in Toscana l'Associazione dei Donatori di Organi.

Eravamo allora in cinque e dopo soli cinque anni l'AIDO contava cinquantamila soci. Orlando Moschini ne divenne il presidente nazionale ed a me toccò la Toscana, la regione dove oggi si effettua il numero più elevato di prelievi di organi da donatori deceduti.

Poco tempo dopo venni eletto presidente dell'Associazione dei Volontari del Sangue a Firenze, con l'avventura, andata a buon fine, della realizzazione del Centro Sangue fiorentino dell'AVIS, fiore all'occhiello del volontariato.

Il mio impegno nell'AVIS non è nato a caso, viene da quello slancio di amicizia che tanti giovani di Lentini ebbero a mio favore, quando nel '67 venni in pericolo di vita per un incidente stradale. Senza il loro sangue sarei rimasto per sempre a Lentini. Ed invece vennero in sei a fare ciò che allora era considerato un gesto inconsueto, quello di porgere il braccio per un amico in fin di vita.

Non l'ho dimenticato, ed a Firenze ho coltivato una passione, il volontariato del sangue, attraverso il quale e con la spinta del Granduca (così era chiamato Bertoletti) ho conosciuto ogni angolo di Firenze.

Ho avuto riconoscimenti che non avrei immaginato nell'entrare in una città dove l'orgoglio e la polemica sono di casa. Sento ora di avere onorato la Sicilia anche con la presidenza dei Probiviri nazionali di questa associazione, che conta un milione di volontari ed è sicuramente il più grande sodalizio del volontariato d'Italia, il primo dei paesi dell'occidente a fondare per legge l'attività trasfusionale esclusivamente sulle donazioni volontarie.




A Firenze insieme ad una grande comunità inglese, la storia recente registra quella siciliana, che oggi si riconosce nell 'ACUSIF, l 'Associazione Culturale Sicilia Firenze. E ' solo un titolo, o una responsabilità?

L'ACUSIF è la testimonianza della comune cultura di Sicilia con quella toscana di Firenze. Non a caso buona parte dei suoi componenti sono fiorentini. Il tracciato culturale dell'Associazione è complesso e comprende le arti, l'approfondimento storico, il ritrovo conviviale, l'analisi sociologica, la musica, e tutto ciò nel confronto anche aspro fra le idee dei soci, quasi tutti in prima linea nel mondo del lavoro, delle arti e delle professioni.

L'ACUSIF negli anni ha fatto cose egregie, aggregando dal nulla uomini e donne rappresentativi della cultura di Firenze, che per provenienza o sentimenti mantengono una "sicilianità" che non è solo un dato anagrafico, ma valori culturali, sociali e morali che hanno avuto in Sicilia gran parte della loro origine. Del resto l'asse Sicilia-Firenze è il fondamento culturale della cultura italiana.

Qualche esempio. All'indomani dell'Unità, Cavour chiamo' da Firenze al Ministero dell'Istruzione Pubblica il titolare della prima cattedra di letteratura araba allora funzionante in Europa. Si trattava di Michele Amari, il siciliano protagonista del Risorgimento che professava l'identita' culturale dei popoli del Mediterraneo, squarciando l'oscurita' che ancora circondava i secoli della dominazione araba in Italia e in Spagna.

Il richiamo a Michele Amari richiama le coscienze a questi anni, che sembrano piu' oscuri di quelli che svelo' nelle sue opere. E non fu il solo che dalla Sicilia arricchi' la cultura della Firenze capitale, allora ferma a Gino Capponi.

Alla neonata "Nazione" di Bettino Ricasoli venne a scrivere Luigi Capuana, e Francesco Crispi combatte' la sua battaglia politica chiamando Mario Rapisardi e Giovanni Verga a Firenze, dove quest'ultimo concepí l'immortale Cavalleria Rusticana, poi musicata dal livornese Mascagni.

Ne' oggi mancano le sinergie culturali e sociali siculo-toscane. All'avventura politica di Crispi e' seguita quella giovane e gentile di Giorgio La Pira, nella stessa città che ottocento anni or sono il notaro Jacopo da Lentini chiamò Florenza che d'orgoglio sente.

La presenza siciliana nella città dell'arte e della cultura ha dunque radici antiche. Dante si riconobbe nella scuola poetica siciliana e pose il notaro Jacopo in Paradiso.

Mi commuove il pensiero che uno dei primi riferimenti letterari di questa città provenga da un lentinese, e che oggi una delle più attive realtà culturali di Firenze sia diretta da un lentinese.

Altra storia sono le recenti ricerche sulle cause della morte di Vincenzo Bellini, indagate da Carmelo Neri, che credo oggi il più sottile biografo del grande compositore catanese.

E' una passione recente quella che mi fa stare al fianco di Neri, con l'amarezza che questo studioso di Bellini non abbia ancora il suo posto nel salotto buono della cultura catanese.

Vedo invece le sue ricerche talvolta trascurate e più spesso saccheggiate, e ciò me ne duole. Se quindi un giorno si deciderà la riesumazione dei resti di Bellini, anche solo per dimostrare che il maestro è morto per cause naturali e non di veleno, l'indagine sarà comunque un successo di Carmelo Neri, del suo editore e degli amici che non devono mancare nel sostegno questo studioso.

Per parte mia, più modestamente, continuerà l'interesse per il melodramma romantico italiano, dove con Neri si è mischiato il giallo con le emozioni della musica.

Non mi dispiace perciò che tanti fiorentini mi ritengano quasi il criminologo del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, dove abbiamo processato sulla scena compare Alfio prima della Cavalleria Rusticana ed abbiamo indagato su Giuditta Turina e la Samoylova prima di ascoltare le arie della Norma.

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Concluda con qualche desiderio.

Quelli maggiori rassomigliano già ai rimpianti. Ne esprimo perciò qualcuno tra i più leggeri, quello di non aver vissuto nei tempi ai quali ho rivolto le mie passioni, e non possedere una macchina prodigiosa per andarvi ad investigare e poi riferire. Ed infine quello di non essere stato difensore di Bellini, per esempio, nelle sue inutili denuncie contro gli sfacciati imitatori.

Avrei potuto essergli amico, e fare con lui il volo più dolce.